LA RESISTENZA: MITO UNIFICANTE
PER GLI ITALIANI?
IL TRIANGOLO DELLA MORTE NELL'OLTREPO'
PAVESE - stralci (da LOTTE E SANGUE DELLA REPUBBLICA SOCIALE NELL'OLTREPO'
PAVESE)
Vasco Nannini
L'Ora di Caino: dopo la "Liberazione" il Bagno di Sangue
- Si oscurò il cielo e la terra, si squarciò
il velo del Tempio.
- Matteo
Inizia la "caccia al fascista". A Varzi,
Voghera, Zavattarello, Stradella, Pietragavina, Broni, in tutto il Nord
si costituiscono i sedicenti "Tribunali del Popolo".
Dalle aule di giudizio sistematicamente viene tolto
il Crocifisso, è il nuovo corso che si vuole dare alla Nazione,
simbolicamente è sostituito dalla vittima inquisita.
I testimoni a carico si sprecano, se qualcuno si
azzardasse a difendere l'imputato anche lui sarebbe inquisito.
Le sentenze sono sempre le solite:
"Condanna a morte - fucilazione alla schiena".
È sufficiente sapere che sia un "fascista".
A pensarci bene anche gran parte dei giudicanti
sono "ex fascisti".
Il condannato viene portato sul "luogo del
martirio" fra due file di popolo urlante che lo insulta e lo malmena.
Alla esecuzione si assiste come a una festa. Sono
presenti anche donne e ragazzi.
Altrettanto accadeva ai "roghi" della
"Santa Inquisizione".
Talvolta vengono uccise persone che con il fascismo
non hanno avuto niente a che fare. Basta una delazione, un rancore, un
odio personale. Eppure l'Oltrepo Pavese è costituito di piccoli
centri (1.000-5.000 abitanti) in cui tutti si conoscevano, si stimavano
e si salutavano fra di loro.
Le donne, davanti alle quali ogni popolo o convivenza civile arresta
i propri livori perché generatrici della vita e depositarie dei
suoi valori spirituali, non furono risparmiate dalla brutalità dei
cosiddetti "liberatori" con tanto di fazzoletto rosso al collo.
Le figlie di Fiorentini, messe nude in una gabbia
ed esposte al ludibrio della folla inferocita, furono uno dei tanti episodi
di violenza inaudita.
È stata una delle pagine più vergognose
della storia d'Italia e del genere umano.
Dopo tali fatti erano giustificati coloro che dicevano:
"Mi vergogno di essere italiano". Ci fu il ritorno all'"Homo
Lupus". Venti secoli di civiltà furono annullati.
Donne portate alla berlina o al supplizio con i
capelli rasati a zero, coperte di lividi ed ecchimosi sanguinanti.
Donne indifese, oggetto di stupri e violenze di
ogni genere prima della fucilazione. Ragazze esuberanti di gioia di vivere,
esemplari madri di famiglia colpevoli solo di essere ausiliarie, donne
fasciste, donne di fascisti oppure, come talvolta accadeva, solo donne
oggetto di desideri da parte di bruti che si avvalevano della stella rossa
che portavano sul berretto. (Le Soldatesse di Mussolini - Ed. Mursia)
Dopo il tragico Aprile '45 il movimento partigiano
si quintuplicò.
Coloro che "stavano alla finestra" si
dichiararono partigiani e scesero in piazza anche loro. Una parte delle
atrocità sopra citate furono compiute da quei "nuovi resistenti".
La Vita Continua
- Nessuna notte è così lunga e fonda da vietare il sorgere
del sole.
- Frà Ginepro
Come dopo una tempesta, un cataclisma sui colli
di Varzi, passati gli anni di caino, è tornata a gioire la vita
con le sue eterne costanti.
Escluso le cerimonie ufficiali, nel rispetto di
tutti i caduti, si cerca di dimenticare la "sagra dell'odio".
Domina l'omertà, si vuole dimenticare, subentra
la meditazione e la constatazione. Forse il rimorso. Gli odi si placano.
Le generazioni si susseguono rivolte al futuro, ad altri interessi. Purtroppo
si è fatto di tutto per estirpare dai loro animi la sacralità
della Fede, dell'Italia, della Patria. La bandiera tricolore viene sventolata
con passione solo nelle competizioni sportive.
Varzi, sita nel cuore delle valli dell'Oltrepo Pavese,
è una cittadina ricca di torri medioevali, bagnata dal torrente
Staffora dalle acque chiare e trasparenti che hanno ancora la freschezza
della sorgente e dei boschi da esse attraversati. È nota per la
lavorazione dei salumi apprezzati ovunque. Per il clima mite ed il cielo
limpido è méta di turismo, specialmente milanese.
Sul sovrastante monte Penice, ove fascisti e partigiani
hanno duramente combattuto fra di loro insanguinando i suoi boschi, attualmente
vi sono frequentate stazioni di sci e attrazioni invernali.
Negli anni 1960, proveniente da Pisa, dopo un faticoso
viaggio su una "500" attraverso i passi del Brallo e del Penice,
arrivai a Ponte Crenna.
Ero accompagnato da mio figlio dodicenne Walter
e da un caro camerata che voglio ricordare su queste pagine: Iosse Pampana.
Era sofferente perché portatore di handicap ad una gamba.
Domandai a un gruppo di persone, riunite davanti alla Chiesa del paese
all'uscita della Messa, se potevano darmi notizie circa "quattro militari
uccisi in quel paese su un camion che portava impressi i segnali della
Croce Rossa".
Notai in loro un certo imbarazzo, nessuno sapeva
nulla. Il gruppo si dileguò immediatamente.
Rimase solo una signora, vorrei dire una coraggiosa signora. Mi indicò
una croce costituita da due canne incrociate e mi disse: "In quel
posto hanno ucciso i militari che cercava".
La croce di canne, con l'autorizzazione delle autorità comunali
di Bagnaria, alle quali rinnovo la mia stima e gratitudine, fu sostituita
con una di marmo rispettata da tutti. Da quel giorno è divenuta
méta di pellegrinaggi di commilitoni e cerimonie austere in cui
ogni intolleranza o faziosità è bandita.
Essa è stata eretta in memoria di tutti i caduti in Val Staffora
e nell'Oltrepo Pavese.
Per i Superstiti la Medievale "Morte Civile": Persecuzioni,
Galera, Epurazioni
Anno 1946. Voghera
Per le umiliazioni subite e gli stenti muore il
dott. Armando Uberti, prestigiosa figura di combattente e amministratore.
Tenente degli Alpini, viceprefetto dell'Oltrepo
Pavese durante la RSI, superò mille difficoltà provocate
dalle terroristiche incursioni aeree e dalle azioni partigiane per fornire
i viveri alla popolazione.
Era un incarico più che arduo in quel periodo,
fece di tutto per assolverlo nel migliore dei modi nonostante le difficoltà
sopra citate.
Oltre a lui fu epurata la sorella Onorina, la quale
dell'insegnamento ai suoi scolari ne aveva fatta una missione. Il suo amore
verso di loro era ricambiato. In lei riviveva la maestrina "con la
penna rossa" del libro "Cuore" di De Amicis. Sua gravissima
colpa: "Avere insegnato ai ragazzi ad amare la Patria". Per il
dolore morale morì poco dopo.
Una via della cittadina dell'Oltrepo Pavese era
intestata al nome di un loro fratello, valoroso caduto della 1a guerra
mondiale. L'intestazione fu "epurata". Il cognome dell' "untore"
Uberti di manzoniana memoria doveva scomparire per sempre da Voghera.
Le uccisioni dei civili spesso avvenivano su segnalazione
dei paesani della vittima per rancori personali o da parte di ex fascisti
che intendevano "riabilitarsi".
Mi permetto citare un fatto personale: su indicazione
di vicini di casa, ex "fascistoni", i partigiani insistevano
per sapere dove era mio fratello Walter, partito volontario nella RSI.
Purtroppo i loro compagni avevano già "fatto giustizia"
al Nord.
A Pisa viene epurato Amedeo Nannini, mutilato della
prima guerra mondiale, stimato impiegato delle FF.SS., padre di un "repubblichino"
caduto nell'Oltrepo Pavese. All'angoscia del figlio che "non tornava"
si aggiungeva la tragedia economica di dover mantenere due figli minorenni
venendogli a mancare l'unica fonte di guadagno.
Del ritorno del figlio si "preoccupavano"
anche i partigiani locali dicendogli: "Se non hanno fatto giustizia
al Nord, quando torna ci pensiamo noi!".
Successivamente alcuni di loro sono finiti in galera
per reati comuni.
Fu riassunto alcuni anni dopo. Nonostante le avversità
e i dolori non si arrese. Raggiunse il grado di sottocapostazione di Pisa
Centrale. Morì di tumore. Con la moglie, recentemente deceduta,
e il figlio diletto riposa nel cimitero di S. Ermete (Pisa) in attesa della
resurrezione in Cristo.
LOTTE E SANGUE DELLA REPUBBLICA SOCIALE NELL'OLTREPO' PAVESE Vasco
Nannini 1998 Edito in proprio Per ricevere il volume richiederlo a: Vasco
Nannini (tel 050-44059), Vicolo delle conce 25, PISA
LA FUCILAZIONE DI FIORENTINI
(da LOTTE E SANGUE DELLA REPUBBLICA SOCIALE NELL'OLTREPO' PAVESE)
Vasco Nannini
Dalla Pubblicazione: "Zavattarello Pagine
di Vita e di Storia"
Il 29 aprile 1945, un reparto della Brigata Matteotti,
nel corso di un rastrellamento, catturò il ten. colonnello Fiorentini.
Tradotto a Stradella, il capo della "Sicherheit" venne condotto
a Milano a disposizione del Comando Volontari Libertà (C.V.L.).
Dopo un interrogatorio da parte del comandante della Zona operativa Oltrepo
Pavese, "Edoardo" (Italo Pietra), Fiorentini, tradotto a Voghera,
vi fu processato per direttissima da un tribunale popolare. Condannato
alla pena capitale, verrà fucilato il 3 maggio in località
Piane di Varzi, nello stesso punto in cui circa un anno prima aveva fatto
fucilare tre giovani di Crociglia.
Dal già ricordato volume di memorie, inedito
in Italia, riportiamo ancora una volta la testimonianza di "Bill"
(Ufficiale Inglese di Collegamento Partigiano nell'Oltrepo Pavese)
Fiorentini si comportò con dignità
ed io, non potendo aiutarlo, dovetti limitarmi ad ammirarlo. La "belva
umana" (così veniva definito dai partigiani il comandante delle
forze di polizia fascista) indossava un giaccotto bleu sbiadito ed un paio
di pantaloni grigio-sporchi. I suoi capelli bianchi scendevano sul viso.
Per pochi minuti camminò avanti e indietro
sulla strada insieme con don Rino, il quale, per la prima volta nel corso
della guerra partigiana, indossava il suo abito talare. Mentre camminavano,
il prete lò confessò. Finita la confessione, Fiorentini espresse
al cappellano gli ultimi suoi desideri. In particolare lo pregò
di recare il suo affetto alla vecchia madre.
Il momento dell'esecuzione si avvicinava. Tutti
i partigiani presenti, circa cento uomini, volevano far parte del plotone.
Dovetti usare la mia autorità per mantenere la disciplina. Gli uomini
scelti per la fucilazione, come del resto tutti gli altri, erano equipaggiati
nelle più varie fogge.
Offrirono a Fiorentini una sigaretta ed un bicchiere
di vino.
Mentre il condannato stava fumando, Primula Rossa,
manovrando il mitra, mi raggiunse dicendo chiaramente che intendeva comandare
il plotone.
Ben presto la sigaretta finì e Fiorentini
fu condotto verso il luogo dell'esecuzione. Il bicchiere di vino rimase
intatto sul bordo della strada.
"Fucilazione alla schiena!" urlò
Primula Rossa ordinando a Fiorentini di girarsi. Per un attimo l'anziano
uomo espresse una grande emozione, poi si voltò verso don Rino e:
. . "Vi imploro - esclamò - persuadeteli a spararmi al petto".
Il prete indirizzò lo sguardo verso Primula Rossa e: "Angelo
- disse - ...per piacere..."
Primula Rossa annuì e si diresse verso
Fiorentini. Con segno di grande rispetto gli chiese se avesse un ultimo
desiderio. Il fascista scrollò la testa, ma come Primula Rossa retrocedette
verso il plotone già schierato, lo richiamò. "Lasciatemi
dare l'ordine della mia esecuzione" implorò.
Don Rino si interpose, ma il giovane comandante
partigiano si irrigidì.
A questo punto non potei fare a meno di intervenire.
Primula Rossa rispose: "Va bene".
C'era tanto silenzio intorno. Permaneva nell'aria
quella fama di inflessibilità creatasi attorno a Primula Rossa durante
tutto il periodo partigiano. Primula Rossa guardò negli occhi i
suoi ribelli uno ad uno facendo capire che l'ora dei risentimenti stava
per finire. Poi Fiorentini urlò: "Squadra! Pronti!". Una
breve pausa, poi il vecchio fascista si scoprì il petto, i lineamenti
del viso si distesero e "Viva l'Italia - urlò - Fuoco!"
La morte fu certamente rapida. Giustizia era
fatta.
In altre occasioni io tenni sempre gli occhi
bene aperti, ma in quel particolare momento, li chiusi.
Combattere sulla montagna è una cosa,
vedere l'esecuzione di un uomo è un'altra. Non avevo alcun dubbio
circa la sentenza contro Fiorentini, ma non avrei voluto essere presente
alla sua esecuzione. Sentivo un represso rimorso e, sebbene non credente,
mi ritrovai mentre pregavo Dio perché la guerra era finalmente finita.
La guerra è davvero finita.
Come dopo un furioso temporale, che ha squassato
il cielo di boati, fatto straripare i torrenti, lacerato gli alberi, anche
su Zavattarello e l'alto Tidone le nubi si diradano lasciando posto a larghi
squarci di azzurro.
Le "Nostre" Testimonianze circa l'uccisione
del colonnello Ing. Felice Fiorentini
(da "Guerra Civile in Italia" di G.
Pisano)
Il colonnello d'Aviazione Felice Fiorentini,
abitante nell'Oltrepo Pavese, con uomini male armati e pochi mezzi a disposizione
seppe reggere l'invadenza delle bande partigiane che spadroneggiavano in
Val Staffora, effettuò azioni di contrattacco per alleggerire la
pressione nemica su Varzi.
Fiorentini, proprietario della ferrovia elettrica
a scartamento ridotto Voghera-Varzi, con il suo valore e conoscenza di
quei luoghi riuscì a salvare il presidio militare dalla sopraffazione
partigiana.
Durante la "liberazione", accusato
delle atrocità più infami, davanti al "tribunale del
popolo" di Voghera non ha mai rinnegato la legalità delle sue
azioni di controguerriglia e la sua fede fascista.
La stessa accusa dovette riconoscergli un passato
di persona integerrima e disponibile ad aiutare tutti coloro che si rivolgevano
a lui.
Dopo l'esecuzione la sua salma fu oltraggiata
nella cappella mortuaria del Cimitero di Varzi dove era stata deposta.
Prima della fucilazione fu messo in una gabbia,
trainato nei vari paesi dell'Oltrepo Pavese ed esposto al ludidrio della
folla inferocita. In un'altra gabbia furono messe le due figlie minorenni,
Adriana e Nicoletta, nude. Ragazze esuberanti di vita, di una moralità
integerrima come aveva imposto loro il padre, colpevoli solo di essere
figlie di un fascista.
Fu un'azione infame!
Fiorentini volle comandare lui stesso il plotone
di esecuzione.
Prima della scarica mortale gridò: "Viva
l'Italia!".
A.U. del "Lucca" Nazzarri Danilo
A Voghera il col. Fiorentini fu portato in una
gabbia collocata al centro della piazza cittadina ed esposto al ludibrio
della folla inferocita.
Era una gabbia di legno stretta e bassa nella
quale poteva stare solo seduto.
Ai lati della stessa vi erano dei bastoni lunghi
ed appuntiti a "disposizione" della folla per colpirlo attraverso
le sbarre.
Assistetti a scene così esecrabili che
erano paragonabili solo alle violenze contro gli "untori" ricordate
da Manzoni nella "colonna infame" e ai "roghi" della
"Santa Inquisizione".
Nessuna autorità o rappresentante morale
di quella pacifica e nobile cittadina lombarda intervenne o poté
intervenire contro quello spettacolo di violenza degradante della persona
umana qualunque sia stata la sua colpa.
Un'ausiliaria di Salice Terme
Fiorentini era sulla piazza del paese circondato
da una plebaglia che lo offendeva, sputacchiava, malmenava.
Una "povera bagascia" lo colpì
alla testa con il tacco dello zoccolo. Il sangue gli usciva abbondantemente
e gli rigava il volto.
Nonostante tutto il colonnello non curava asciugarsi.
Stava rigido sull'attenti come a una cerimonia
militare.
Iniziava il suo martirio.
Partecipò all'aggressione la sorella del
partigiano Alberto Pirematti.
"Guerra Civile in Italia" di G. Pisano
L'azione della "Sicherheit", di cui
era responsabile prima Alfieri (ucciso dai partigiani) poi Fiorentini impedì
ai partigiani di attestarsi sulla statale Piacenza-Voghera-Tortona e li
costrinse a concentrarsi su Varzi e la Val Staffora.
La statale aveva una vitale importanza militare
perché collegava il Piemonte con l'Emilia.
La "Sicherheit" (sicurezza) dipendeva
direttamente dai tedeschi. Era composta di circa cento militi. Ebbe molti
caduti. Dura fu la sua azione per mantenere l'ordine nelle precarie condizioni
in cui era costretta ad operare.
A.U. del "Lucca" Antonio Cintoli
Il col. Fiorentini chiuso in una gabbia, in un'altra
furono poste le due figlie minorenni tutte nude, lo fecero girare per le
strade di Pavia.
Dalle parti e dietro le gabbie c'erano i cosiddetti
"liberatori", cioé i partigiani della Stella Rossa della
Divisione Garibaldina.
Sai cosa facevano? Si divertivano con dei bastoni
a punta a punzecchiare sia lui che le povere ragazze nelle varie parti
del corpo.
Ciò l'ho potuto vedere in quanto, proprio
in quel giorno, mi portarono, come prigioniero di guerra, dall'ospedale
Borromeo di Pavia al Castello Sforzesco della predetta città.
Quindi ho visto con i miei occhi, strada facendo,
quello spettacolo vergognoso, disumano sotto tutti gli aspetti, degno solo
di coloro che, macchiandosi di ogni infamia, si proclamavano "liberatori".
LOTTE E SANGUE DELLA REPUBBLICA SOCIALE NELL'OLTREPO' PAVESE Vasco
Nannini 1998 Edito in proprio Per ricevere il volume richiederlo a: Vasco
Nannini (tel 050-44059), Vicolo delle conce 25, PISA
ODIO SENZA
SPERANZA da I GIORNI DELL’ODIO
AA.VV.
Il Presidente della Repubblica,
solennizzando con la sua partecipazione il cinquantenario della insurrezione
partigiana vorrebbe significare l'unità nazionale stessa dinanzi
a quegli eventi.
Anche al cronista più
superficiale, per non dire allo storico, appare evidente la contraddizione.
Come può celebrarsi, quale fatto di unità nazionale, l'epilogo
di una guerra civile?
Nella risposta a questo interrogativo
si evidenze l'attualità di ricerca di questo nostro lavoro.
Cinquant'anni sono passati
dalla tragica primavera italiana del 1945 e sembrano ormai un tempo sufficiente,
se non per affermare verità storiche per lo meno per ricercarle.
Decine di opere editoriali sono venute alla luce in questo periodo per
rievocare eventi storici; ma di quale storia si tratta, se, celebrando
una guerra civile, si ignorano, si vogliono ignorare le ragioni, i contenuti
ideali, presenti anche nella parte perdente, perché, per logica
e per natura, quelle ragioni e quei contenuti sono insiti in tutti gli
atti umani, in ogni momento della storia dell'umanità?
Ci si compiace, e si ritiene
che questo possa avere validità storica, di indicare gli sconfitti
della guerra civile puramente e semplicemente come “turpe nemico”, come
il “servo del tedesco invasore”, così finendo per rendere agiografiche,
stucchevolmente retoriche, tutte le rievocazioni delle gesta dei vincitori.
Benedetto Croce ha scritto
che la storia può essere redatta soltanto da uomini di parte, ma
è pur vero che il convincimento dello storico non deve prescindere
dalla verità storica per consentire al lettore di partecipare col
proprio soggettivo convincimento alla visione soggettiva dello storico.
Altrimenti, non si dà luogo a procedere, e la ricerca di una verità
obiettiva, sofferta e serena “super partes” resta un sogno confinato nel
mondo delle speranze. Al di là di ogni intenzione di ricercare noi
la verità storica per stabilire cosa furono in effetti la resistenza
italiana e l'epilogo del fascismo italiano, questo articolo vuole essere
semplicemente la cronaca degli ultimi giorni della guerra civile in Italia.
In quei giorni si evidenze una carica d'odio, nell'Italia del Nord, che
non trova giustificazione negli eventi che videro, da una parte il trionfo
della resistenza nel momento in cui gli anglo-americani risolvevano vittoriosamente
il conflitto con la Germania e la Repubblica Sociale Italiana, dall'altra,
la rassegnazione alla sconfitta di quegli italiani che avevano ritenuto
di dover scegliere sul fronte opposto la loro collocazione politica ed
ideale dopo la spaccatura dell'8 settembre 1943.
La carica d'odio che si volle
allora innescare potrebbe trovare la sua giustificazione in un evento rivoluzionario.
La storia dell'umanità,
infatti, è ricca di eventi rivoluzionari, che acquistano validità
storica nel sangue e, a volte, nell'esaltazione di quel macabro battesimo.
Ma evento rivoluzionario significa
svolta radicale nella storia di una società, di una nazione, di
un popolo. A questo punto non può la ricerca della verità
storica non chiedersi se dalla guerra civile scaturì una rivoluzione
che possa in qualche modo giustificare il bagno di sangue che seguì,
e rappresentò la sola realtà storica della primavera italiana
del 1945.
Non v'è dubbio, se
la storia è scienza, che una delle sue equazioni definitive è
quella del rapporto tra causa ed effetto.
Il rapporto tra causa-effetto
si esprime nella logica di un risultato che abbia il suo presupposto nelle
azioni che lo promuovono.
Insomma, se vi fu un'azione
rivoluzionaria, se vi fu una tensione rivoluzionaria, vi deve essere stato
un risultato rivoluzionario, un mutamento essenziale nella struttura politica
e sociale della nazione. Sono 50 anni ormai che gli storiografi istituzionalizzati
del regime sono alla ricerca degli ideali della resistenza, quali si manifestarono
e culminarono nelle stragi fratricide della primavera '45.
A giustificare la crisi delle
istituzioni, oggi si parla di infedeltà ai valori della resistenza.
La realtà vera, odierna, della crisi delle istituzioni è
la crisi della società italiana del post fascismo, cioè l'anacronistico
restaurazione delle strutture sociali e istituzionali prefasciste.
Una vera e propria restaurazione
di istituzioni basate sulla degenerazione partitocratica, nel quadro di
una società capitalistica, perseverante nei suoi squilibri territoriali,
nelle sue ingiustizie sociali.
Il nostro organismo statale
continua ad essere condizionato dalle clientele, dagli interessi di parte,
dalle sopraffazione dei singoli e dei gruppi contrari ad ogni visuale di
interessi generali e nazionali. Questa era la realtà della società
italiana pre fascista che causò, in termini storici, l'avvento del
fascismo.
E allora, se nulla è
cambiato nelle istituzioni politiche e nell'apparato statale dell'Italia
post fascista, dov'è la svolta rivoluzionaria che può in
qualche modo giustificare il bagno di sangue del periodo liberatorio e
post liberatorio?
L'odio rivoluzionario è
I 'odio che si accompagna alla speranza.
Là l'odio che deturpa
l'uomo nella fase rivoluzionaria ma che lo riscatta nel desiderio di una
società nuova, migliore, più giusta e più umana della
precedente.
Invece l'odio che fu innescato
in Italia nell'aprile del '45, dato che nessuna svolta radicale ne scaturì,
fu tragico odio senza speranza.
E allora la ricerca storica
ci aiuta a capire il movente dei fatti verificatisi oltre 50 anni fa e
soprattutto la struttura umana di coloro che vollero quel bagno di sangue.
Non per ribadire la condanna dei persecutori, né per beatificare
le vittime, ma per dare un contributo, sia pure modesto, alla ricerca della
verità.
Alla fine del mese di marzo
del 1945, le armate rosse hanno ormai superato il fiume Oder, l'ultima
linea di resistenza della Germania nazista.
Scompare, praticamente, in
termini di rilevanza bellica, l'esercito tedesco ad oriente.
In coincidenza con questi
eventi, resa della Rhur ad occidente. L'incalzare ormai inarrestabile delle
armate anglo-americane, annuncia prossimo il crollo del Terzo Reich.
E' in questo quadro che si
schiude la scena dell'ultimo atto della guerra sul fronte italiano. La
vittoria anglo-americana in Italia è corollario alla sconfitta della
Germania in Europa e ciò puntualmente si verifica nei primi giorni
del mese di aprile.
Cadono i contrafforti della
linea gotica, inizia l'azione d'aggiramento dalla sponda adriatica al cuore
dell'Emilia, cedono le ultime resistenze tedesche e italiane in Garfagnana
e sul versante tirrenico.
Forse ci si illude che sia
ancora possibile riorganizzare una linea di resistenza sul Po, ma il 21
aprile l'occupazione di Bologna decreta la fine di ogni organizzata resistenza
italotedesca anche sul fronte italiano.
Gli eventi bellici, da quel
punto e da quel momento, sono nel susseguirsi di episodi di sistematica
ritirata, nello straripare di armate anglo-americane nell'Italia del Nord,
consistono in una pura e semplice operazione di occupazione militare.
Questo epilogo sul fronte
italiano ha avuto il suo presupposto nella assoluta supremazia dei mezzi
alleati su quelli dell'apparato militare tedesco, scarsamente sorretto
dallo sforzo militare che la Repubblica Sociale era riuscita a realizzare.
E' in questo quadro che si
inseriscono gli eventi della cosiddetta insurrezione partigiana. Cosa fu
l'insurrezione partigiana nei limiti di un'effettiva visualizzazione storica
è lapidariamente descritto dal Comandante Supremo Alleato, Maresciallo
Alexander, che cosi pubblicava nella “London Gazett” nel giugno 1950: “Vi
fu, beninteso, l'insurrezione del 25 aprile '45; ma ciò avvenne
dopo che gli eserciti tedeschi erano stati distrutti in battaglia a sud
del Po, dopo che essi avevano intavolato trattative per la resa e appena
una settimana prima della loro formale capitolazione finale».
Per una attenta analisi di
quei giorni occorre valutare la realtà del movimento di resistenza
nell'Italia del Nord dagli ultimi mesi del 1944 al febbraio del 1945.
Nell'estate del 1944 si era consolidato il fronte
italiano, una volta arrestatasi l'offensiva alleata a sud dell'Emilia,
fra l'Adriatico e il Tirreno, da Rimini a La Spezia.
Ebbero allora inizio le grandi
azioni antipartigiane condotte dalle formazioni fasciste e dai reparti
italo-tedeschi col risultato di eliminare, come entità operative,
pressoché tutti i focolai partigiani di montagna. In quel momento
il Comando interalleato del Mediterraneo rivolge precisi ordini alla resistenza
italiana di sciogliersi, disimpegnarsi, nelle montagne e nelle città.
Cosa era rimasto nell'inverno
'44 e sino al febbraio '45 di tutto l'apparato di guerriglia partigiana,
sono gli stessi storici resistenziali a precisarlo: sopravviveva soltanto
la capacità organizzativa del Partito comunista, essendo questo
riuscito a salvare sia i quadri delle formazioni partigiane garibaldine,
che quelli delle Sap e dei Gap, vere e proprie organizzazioni terroristiche
di città. Nel febbraio dei 1945, nel momento in cui l'epilogo del
conflitto è prevedibile come imminente, in Italia si configura una
nuova strategia del partito comunista. Esso persegue lo scopo predominante,
se non esclusivo, di proiettare il nostro Paese nell'area dell'impero sovietico.
Dopo l'inverno del '44 sono
i quadri della resistenza comunista l'unica realtà operativa storicamente
accertabile.
In montagna sono le formazioni
garibaldine del partito comunista che si riorganizzano, mentre in città
riesplode il terrorismo delle Sap e dei Gap. Oggi gli storiografi dell'antifascismo
parlano anche di sopravvissute e restaurate altre forze politiche: storicamente
di costoro non esiste traccia.
Nel tentativo di storicizzare
fatti insignificanti o addirittura inesistenti, nella rievocazione si è
caduti nel ridicolo.
L'obiettivo delle formazioni
partigiane di montagna e di città, in quel momento, non è
quello di coadiuvare in qualche modo lo sforzo militare degli Alleati per
sconfiggere i tedeschi e i fascisti, ma, ripetiamo, quello di assicurare
al partito comunista il controllo . dei grandi centri urbani dell'Italia
settentrionale e il conseguente insediamento dei comunisti nei posti di
potere più importanti. In questa visuale il partito comunista si
colloca al di sopra e al di fuori e, se necessario, contro lo stesso Comitato
di Liberazione Nazionale Alta Italia. Con la direttiva numero 15 i comunisti
nel febbraio-marzo 1945 stabiliscono quale obiettivo dei triumviratí
provinciali e regionali della resistenza l'insurrezione partigiana.
Ed è proprio per questo
scopo che i triumvirati sono stati organizzati. Pietro Secchia così
riferisce: “Per coordinare la lotta politica delle masse lavoratrici ....
fin dal giugno 1944 il PCI aveva provveduto a costituire in ogni regione
occupata dai tedeschi un triumvirato insurrezionale composto da tre dirigenti
le organizzazioni politiche e militari. Questi triunmvirati, pur di assicurare
la vittoria all'insurrezione nazionale, dovevano operare anche nel caso
in cui gli organismi unitari (i CLN) al momento decisivo non avessero funzionato
o fossero stati paralizzati da dissensi interni».
E’ il PCI che fa tattica e
strategia, nell'ultima fase della guerra civile, rifiutando qualsiasi conclusione
del conflitto che prescinda dall'insurrezione partigiana. Si rifiuta qualsiasi
ipotesi di trasmissione indolore dei poteri tra la Repubblica Sociale Italiana
e il governo del Sud, tra la Repubblica Sociale Italiana e lo stesso Comitato
di Liberazione Alta Italia.
Su eventuali vocazioni alla
pacificazione nazionale che potessero sorgere dall'una o dall'altra parte,
dopo tanto sangue fraterno versato, i comunisti sono spietati e irremovibili.
Ecco come si esprime il più autorevole compagno del nord, Luigi
Longo: “Nessun lasciapassare, nessun ponte d'oro a chi se ne va, ma guerra
di sterminio ... “. E ancora Longo che così redarguisce i
pacifisti del CLN: . Per il successore di Togliatti alla guida del PCI,
in quel momento il disegno da attuare è chiaro: “Muoiano della morte
dei traditori i turpi fascisti e i plutocrati profittatori”.
Ora non si parla di sterminio
dei soli fascisti, ma anche dei “plutocrati profittatori”. E il partito
comunista che ritiene necessario che la cerchia degli eliminandi debba
essere allargata a tutti quelli che in qualche modo potranno contrastare
la prospettiva politica post bellica del comunismo.
Alla direttiva numero 15 sopra
ricordata, il 10 aprile fa seguito la direttiva insurrezionale numero 16,
ovvero quanto occorreva fosse fatto “per predisporre e scatenare vere e
proprie azioni insurrezionali”
E proprio Pietro Secchia a
dichiarare la necessità di: “respingere decisamente tutte le manovre
tendenti a evitare e far fallire l’insurrezione nazionale (comunista)”
Pietro Secchia, alter ego di Luigi Longo, nel
fomentare e dirigere la guerra civile in Alta Italia.
Per insurrezione nazionale
e per manovre ad essa contrarie deve intendersi l'estremo tentativo di
pacificazione effettuato dall'una e dall'altra parte per far sì
che la guerra civile avesse a concludersi con la sconfitta dei tedeschi
e la vittoria degli alleati.
Gli storici seri hanno riconosciuto,
venti e più anni or sono, su “Civiltà Cattolica” che “Sul
piano storico la resistenza si compendia in un'Italia piena di memorie
tragiche e grandi ma che fu lotta fratricida che ha lasciato strascichi
dolorosi negli animi degli italiani, una ferita non ancora rimarginata:
una guerra civile combattuta con spaventosa violenza che ha portato le
parti in lotta - partigiani, tedeschi e fascisti - ad efferatezze, ad eccidi,
a rappresaglie e vendette terribili».
Ci si domanda oggi perché
quella terribile lotta fratricida dovesse proseguire dopo la fine della
guerra e sfociare in un ulteriore bagno di sangue conseguente alla insurrezione
partigiana?
Ovvia la risposta. E' quella
a cui abbiamo accennato poco fa.
Il partito comunista allora
maestro di reapolitik, sapeva che non vi era spazio in Italia per una svolta
rivoluzionaria. Aveva ben appreso dal suo padrone e ispiratore moscovita
che lo schieramento internazionale dopo l'incontro di Yalta e gli accordi
tra russi, americani e inglesi, non dava spazio in Italia ad un evento
che consentisse la trasformazione della società italiana in senso
Comunista.
Ma se non era possibile al
PCI la conquista tout court del potere, lo scopo poteva essere raggiunto
più tardi, previa la eliminazione fisica del maggior numero possibile
di fascisti o comunque anticomunisti, la liberazione, cioè, della
piazza da ogni seria opposizione al neo regime filosovietico.
Ed è su questo presupposto
che si verifica la mattanza della primavera '45, che è l'unico concreto
risultato dell'insurrezione partigiana del 25 aprile. Eliminazione fisica
dei fascisti allora, mistificazione storica poi, per spezzare sul piano
psicologico il retaggio di valori ideali che le generazioni future avrebbero
potuto acquisire dalla parte perdente.
Ed ecco che, emblematicamente,
la storia impostata dai comunisti e subita dai loro avversari tende ad
evidenziare la fine di Benito Mussolini in termini che ne riducano e perfino
ne stravolgano l'immagine e il peso storico. A sostegno delle nostre tesi
vediamo cosa accadde, per esempio, a Genova, a Milano e a Torino.
Nella riunione del partito
comunista che ebbe luogo a Milano nei giorni 11 e 12 marzo 1945, Longo
e Secchia impartivano direttiva secondo quanto indicava Ercole Ercoli (Palmiro
Togliatti), da Roma: una decisa opposizione a qualsiasi tentativo, che
potesse essere accettato dalle altre componenti del Comitato di Liberazione
Nazionale Alta Italia, di addivenire a “tregue”, a “patti di non aggressione”.
Opposizione assoluta, quindi, all'alternativa dell'eliminazione fisica
dei fascisti e degli anticomunisti, alla conclusione indolore di una guerra
civile già cosi dolorosamente vissuta.
Queste direttiva per l'insurrezione
a qualsiasi costo, sono consacrate nel messaggio inviato sempre da Ercole
Ercoli alle 16,30 dei 13 aprile al compagno Gallo (Luigi Longo). In questo
messaggio Togliatti riconferma che il disegno politico della insurrezione
deve essere attuato anche in contrasto o addirittura in opposizione alle
direttiva del comandante americano Clark, il quale aveva in pratica ordinato
alle formazioni partigiane di attendere che le grandi città fossero
occupate dagli Alleati.
Testualmente il 13 aprile
alle ore 16,30 Togliatti comunicava a Longo:
“Per il compagno Gallo. Il
nuovo ordine del giorno del Generale Clark è stato emanato senza
l'accordo né del governo, né nostro. Tale ordine del giorno
non corrisponde agli interessi del popolo. E' nostro interesse vitale che
il popolo si sollevi in un’unica lotta per la distruzione dei nazifascisti
prima della venuta degli Alleati. Questo è indispensabile specialmente
nelle grandi città come Milano, Torino, Genova, ecc., che noi dobbiamo
fare il possibile per liberare con le nostre forze ed epurare integralmente
dai fascisti».
Ecco quindi, dedotto dal testo
originale, il leit motiv, lo scopo politico dell'atto insurrezionale che
si vuol attuare: “epurare integralmente dai fascisti”.
Tutto questo è la prova
del nove che si opererà in tal senso. Sta per cominciare la giostra
della insurrezione che ha per obiettivo la strage dei vinti.
Dall'altra parte, dalla parte
fascista, qual è l'orientamento, quali sono i propositi in quei
giorni di tragica vigilia?
La principale preoccupazione
di tutti, dal capo ai gregari, era quella di conservare la struttura dello
Stato Repubblicano fino al passaggio dei poteri allo Stato Italiano, che
rappresentava legalitariamente la parte vincente. Questa sembrava a Benito
Mussolini la naturale conclusione degli eventi. Ci si illudeva che la conclusione
del conflitto in Europa potesse coincidere con la fine della guerra civile
in Italia.
Ci si illudeva che dopo i
giorni dell'odio si potesse guardare oltre, perché a quegli eventi
sopravvivesse il popolo italiano tutto essendo figli di una stessa terra.
Questo è il senso delle
trattative di resa offerte da Mussolini, tramite il figlio Vittorio agli
alleati e tramite il Cardinale Schuster al CLNAI. Anzi in quel periodo
è da registrare un dissenso tra la linea del Governo della RSI e
il PFR. Il Partito ipotizza la Valtellina quale “ultimo ridotto” o qualsiasi
analoga soluzione che consenta di finire in bellezza. Il Governo Repubblicano,
invece, intende che il suo compito precipuo, il suo ultimo atto, sia quello
di attuare un trapasso di poteri in termini di solidarietà nazionale.
E se la ricerca storica tende
veramente ad individuare il sentimento della maggioranza degli italiani
in quel momento, al di là e al di sopra delle fazioni, scoprirà
che questa ansia di solidarietà nazionale è l'autentica aspirazione
del popolo italiano. Né poteva essere altrimenti dopo venti mesi
di odio e di sangue.
Antonio Gambino nella sua
storia del dopoguerra, scrive che certamente l'insurrezione partigiana
fu caratterizzata “dalla mancanza di un'iniziativa popolare nella caduta
del fascismo”. Mancanza di inizíativa popolare vuoi dire, in buona
sostanza, che il fatto insurrezionale non era sentito, perché non
era giustificabile, perché troppe lacrime erano già state
versate.
Ed ecco l'affannarsi organizzativo
del partito comunista per l'insurrezione, una insurrezione a freddo promossa
da calcolo politico, non certamente da volontà di popolo.
Non gli alleati anglo-americani,
dice il Partito Comunista, devono liberare le grandi città del nord,
ma l'insurrezione partigiana.
E gli eventi, nella realtà
storica, dimostrarono poi che le grandi città non furono liberate
da azioni insurrezionali, ma occupate dalle formazioni comuniste nel momento
in cui le forze fasciste e tedesche le abbandonarono, sotto l'incalzare
delle colonne anglo-americane dilaganti ormai, oltre la linea del Po.
Genova, Milano, Torino: l'atto
insurrezionale si verifica con 24 ore, al massimo con 48 ore di anticipo
sull'arrivo delle truppe alleate.
E l'insurrezione, chiamiamola
cosi, facilitò almeno l'evolversi della situazione militare?
No di certo, se è vero
che la guerra non ha più storia del momento in cui l'esercito rinunciò
ad ogni resistenza sulla linea del Po.
E la linea del Po significa
22 aprile, mentre il timido inizio del primo fatto insurrezionale - quello
di Genova - risale al 24 aprile.
Addirittura il 24 aprile è
la vigilia della formale capitolazione militare tedesca agli alleati presso
il Quartier Generale di Caserta.
Si potrebbe obiettare che
si combatté a Genova, a Milano, a Torino, nel Veneto sino al 23
maggio, ma se combattimenti vi furono essi ebbero luogo quando le colonne
fasciste o tedesche in ritirata vennero attaccate o quando il soldato già
rassegnato alla sconfitta, per istinto di conservazione si batte contro
chi mette in pericolo la sua sopravvivenza.
Ma chiarificatore della necessità
per il PCI, di precedere di almeno 24-48 ore l'arrivo degli alleati, è
il documento relativo alla seduta del 14 marzo 1945 del Comitato di Liberazione
Nazionale Lombardia. Si legge testualmente nel resoconto verbale (vedi
Documenti inediti a cura di Pietro Secchia, Feltrinelli 1971) che in quella
seduta si puntualizzò “per quanto riguarda l'opera di giustizia,
il comando alleato si disinteressa di quanto verrà fatto ai fascisti
nel periodo che precederà l'assunzione dei potere da parte dell'AMG”.
Cos'è l'assunzione del potere da parte dell'AMG, Governo militare
alleato? E’ l’occupazione delle città da parte delle truppe alleate.
Ecco allora la necessità,
nel disegno politico comunista di anticipare di 24 ore almeno l'occupazione
alleata, onde consentire ai comunisti, appunto, la pulizia etnica sulla
pelle dei fascisti veri e presunti. Ed è Palmiro Togliatti che dà
conferma di tutto questo. Nel discorso del 19 maggio 1945 a Milano affermerà:
- “L'obiettivo di liberare l'Italia dai traditori fascisti è stato
raggiunto anche se non tutto quello che avrebbe dovuto è stato possibile
farlo” - Ma, per buona pace del compagno Togliatti, siamo solo al 19 maggio;
quello che non si era potuto fare sino a quel punto verrà fatto
nei mesi seguenti dalle volanti rosse e da quel simulacro di giustizia
che furono le Corti di Assise straordinarie. E' Togliatti, alias Ercoli,
il fuoriuscito arrivato dalla Russia ai primi del 1944 nell'Italia del
sud, che nell'ultimo atto diviene il coordinatore feroce ed implacabile
della giustizia comunista.
E Togliatti di queste cose,
abbiamo detto, se ne intendeva. Aveva già fatto esperienza di -cinico
curatore delle più atroci epurazioni staliniane negli anni precedenti.
Nessuna sorpresa, pertanto,
se l'architetto delle “radiose giornate” fu il Migliore.
Gli ultimi atti politici delle
autorità di Governo della Repubblica Sociale Italiana e del vertice
del Partito Fascista Repubblicano si inquadrano nella situazione, che appare
ormai globalmente compromessa con l'occupazione di Bologna da parte degli
Alleati, tra il 20 e il 21 aprile; Bologna, che per 24 ore almeno fu alla
totale mercé delle bande partigiane comuniste prima che il grosso
delle armate alleate, dopo le avanguardie, entrasse in città. Le
notizie che il vertice della RSI riceve da Bologna fanno apparire evidente
che ormai non ha più senso la speranza di trapasso indolore dei
poteri, una tregua per concordare la resa del Governo della RSI e delle
forze armate fasciste Repubblicane, con il Comitato di Liberazione Nazionale
Alta Italia.
A Bologna è già
in corso la strage indiscriminata dei fascisti, o meglio degli anticomunisti,
così come la vuole il Partito Comunista Italiano. La giustizia partigiana
che non dà spazio ad alcun anelito di pacificazione.
Lo storico inglese Kirkpatrik
cosi testimonia: “Il giorno 23 aprile dappertutto era in corso la caccia
ai fascisti, che vengono uccisi senza pietà”. 24 aprile: a Milano
le autorità della RSI e Benito Mussolini hanno ormai netta la percezione,
per quanto apprendono dai territori appena occupati, che la grande strage
è incominciata.
La giornata del 25 aprile
vede a Milano l'ultimo tentativo operato al massimo livello per un trapasso
di poteri dalla Repubblica Sociale Italiana al CLNAI quale rappresentante
del governo del Sud.
Un tentativo teso ad evitare
altri spargimenti di sangue, altre inutili stragi.
E Mussolini che si reca alI’Arcivescovado
e alla presenza dei Card. Schuster incontra alcuni dei principali esponenti
del Comitato di Liberazione Alta Italia.
La risposta è chiara.
Nessuna trattativa, nessun passaggio di poteri, nessuna tregua, nessuna
capitolazione secondo le leggi dell'umana convivenza, ma soltanto resa
incondizionata. Mussolini, prima ancora di recarsi all'Arcivescovado forse
prevedeva questo rifiuto, ma ciò che soprattutto lo convinse dell'inutilità
del tentativo fu l'assenza all'incontro del responsabile del partito comunista
italiano.
Mussolini aveva elementi certi
per sapere che l'unica seria e bene organizzata formazione partigiana di
montagna e di città era quella del partito comunista; la sua assenza,
quindi, era di per sé eloquente. Mussolini lascia l'Arcivescovado
alle ore 17 circa del 25 aprile e prende atto che nulla servirà
ad evitare l'ultimo atto della tragedia.
Così nell'accomiatarsi
dai suoi fedeli alla prefettura di Milano, egli li scioglie dal giuramento
di fedeltà. E' ancora l'inglese Kirkpatrik che dichiara: “Mussolini
era risoluto a non essere causa di uno spargimento di sangue, non voleva
più chiedere fedeltà ai suoi seguaci, eppure il suo istinto
rifiutava di arrendersi.. Mussolini decise di allontanarsi da Como. Si
preoccupava, come si era preoccupato a Milano” di non coinvolgere la città
nella battaglia... ».
Alla decisione di cui sopra
Mussolini aggiunge una frase: Gli ordini vi verranno da Pavolini».
E gli ordini saranno quelli di allontanare dai grandi centri urbani le
formazioni fasciste ancora in armi, non tanto nell'illusorio disegno di
giungere la Valtellina, quanto nella speranza di evitare scontri sanguinosi
ed eliminare in tal modo ogni pretesto di insurrezione da parte dei comunisti.
Si dovevano abbandonare i
centri urbani e seguire direttrici di avanzata degli angloamericani per
arrendersi a loro secondo le tradizioni militari. Così si erano
comportate le autorità fasciste di Bologna, e avevano abbandonato
con gli ultimi reparti armati la città. Ne derivò che la
giustizia partigiana, a Bologna, si esercitò subito dopo sugli inermi,
gli umili, sulle famiglie dei fascisti e sugli esponenti della borghesia
non fascista, anch'essa obiettivo del furore insurrezionale, perché
ritenuta anticomunista.
Anche da Genova le formazioni
fasciste in armi si erano in gran parte allontanate e quelle rimaste con
i presidi tedeschi attendevano, in stato di tregua, l'ormai imminente arrivo
delle armate anglo-americane. Il 18 aprile il fronte occidentale italo-tedesco,
che dalla Garfagnana raggiunge il mar Tirreno a La Spezia, si dissolve.
Le truppe tedesche e quelle dell'armata di Graziani, anziché retrocedere
lungo la tortuosa via Aurelia, attraversano il passo della Cisa percorrendo
la prevista direttrice di ripiegamento lungo la linea del Pò.
Questo dà la certezza
al Comitato di Liberazione ligure di poter agire liberamente senza cioè
il pericolo dello scontro con divisioni tedesche e repubblicane, ma questo
significa anche che aperta sarà la strada ad una rapida avanzata
degli americani lungo l'Aurelia verso Genova. Non resta quindi che attendere
le 48 ore necessarie perché gli alleati giungano tranquillamente
in porto. E a questo punto che il CLN di Genova decide di proclamare l'insurrezione
contro i tedeschi e contro i fascisti, giustificandola con la volontà
di salvaguardare gli impianti portuali dalle distruzioni tedesche, dal
momento che necessità di altro genere non ne esistevano. Ora è
chiaro, che eventuali distruzioni di impianti e infrastrutture industriali
i tedeschi potevano effettuare solo per rappresaglia contro attacchi partigiani,
ed è altrettanto chiaro che l'insurrezione, semmai, rischiava di
provocare proprio la temuta distruzione delle opere portuali da parte dei
tedeschi. Mentre il 23 aprile il CLN di Genova proclamava l'insurrezione
per il giorno dopo, quello stesso giorno le autorità fasciste e
tedesche decidevano, sulla base delle notizie che provenivano dal fronte
e degli ordini ricevuti dal segretario del PFR Pavolini, di iniziare il
ripiegamento verso la Lombardia. Ciò avveniva nella notte tra il
23 e il 24 aprile.
Senza alcun disturbo da parte
partigiana, le colonne fasciste al comando del Federale Falappa, precedute
da mezzi corazzati, si attestavano all'imbocco dell'autostrada per Milano
che immediatamente iniziavano a percorrere.
Le colonne germaniche preferirono
invece dirigersi verso la Val Polcevera, anch'esse senza incontrare alcun
ostacolo. A Genova erano rimaste, agli ordini del generale Meinhold, truppe
di guarnigione, comandi, uffici e reparti di retrovia. Militarmente efficienti
erano soltanto i presidi dei forti e del porto, alle dirette dipendenze
del Com.te di Marina Max Berningaus.
I punti strategici del porto
erano altresì presidiati da potenti reparti della Xa MAS al comando
della Medaglia d'Oro Arillo.
Italiani e tedeschi intendevano
attendere in armi l'arrivo degli americani.
Ciò si annunciava più
celere del previsto dato che lo stesso 24 aprile si era arreso il 46°
corpo di armata corazzato tedesco incaricato di proteggere la linea di
copertura del fronte Liguria.
E' a questo punto che scatta
l'insurrezione di Genova.
Ma è la stessa storiografia
partigiana che ammette testualmente: “Il 24 Genova insorgeva, prima tra
le città italiane e il 25 aprile l'insurrezione si estese ovunque,
ma non fu un evento trionfale; i partigiani erano pochi e le superstiti
forze del nemico rappresentavano ancora un'incognita.”
La prima e unica azione partigiana
di un certo rilievo fu l'attacco in piazza De Ferraris ad una colonna di
camions in buona parte occupati da funzionari civili e paramilitari tedeschi.
La colonna tedesca fu distrutta,
onde la reazione delle unità germaniche.
Tedeschi e fascisti dai punti
presidiati incominciarono a rispondere all'attacco partigiano. E' in questa
fase dell'insurrezione a qualsiasi costo che si rileva il contrasto delle
autorità antifascista e della Curia con il partito comunista, al
quale si era affiancato l'entusiastico “personale appoggio del democristiano
Taviani”, ex littore (per chi non lo sapesse). Curia e autorità
antifascista volevano che altro sangue non si spargesse a Genova, ma il
PCI, naturalmente, era di contrario avviso.
Ciò nonostante a qualche
accordo si era pervenuti, se è vero che il centro della città
il 25 aprile fu controllato dalla unità di Pubblica Sicurezza del
tenente Pisano, col consenso tacito dei membri non comunisti del Comitato
di Liberazione Nazionale, della Curia e dello stesso Comando tedesco e
fascista. Ed è perciò contro il tenente Pisano e i suoi uomini,
contro la loro azione pacificatrice, che si scagliano i partigiani.
Certamente la funzione di
questo corpo “franco”, diciamo così, di PS, era quella di impedire
che le bande comuniste assumessero il controllo della città, ma
era anche vero che esso avrebbe potuto benissimo garantire l'ordine pubblico
sino all'arrivo delle forze alleate. Frattanto le formazioni garibaldine
dall'entroterra nella tarda serata del 25 aprile cominciano ad entrare
in città.
Il loro primo obiettivo è
naturalmente la Pubblica Sicurezza del tenente Pisano. Questa unità,
in breve, è costretta ad asserragliarsi nel grattacielo, a intavolare
trattative con il comando partigiano per essere infine proditoriamente
aggredita e sterminata insieme col suo comandante fatto precipitare dalla
finestra del 12° piano.
Così si esprime, Meinhold
nelle sue memorie: “Nel corso del 24 aprile io avevo preso la decisione
di mettermi a pied'arm. Mi avevano determinato a ciò i rapporti
recapitatimi sull'avanzata degli americani: costoro, a sud, avevano già
superato La Spezia, a nord i loro mezzi corazzati erano a Stradella” quindi
quasi alle nostre spalle. Un esame preciso della situazione rilevò
che se anche fossimo riusciti ad aprirci un varco e raggiungere la Pianura
Padana, qui lo scontro con i carri armati nemici avrebbe decimato le nostre
truppe. Quanto poco in tutto ciò considerassimo i partigiani, risulta
da quanto detto in precedenza».
E il 25 aprile alle ore 9
il Gen. Meinhold si arrende al CLN. A determinare la resa, dunque, non
fu l'insurrezione partigiana, ristretta in una modesta area, ma la valutazione
della situazione militare del fronte anti alleato, insostenibile per i
tedeschi.
Per altro, l'accordo stipulato
da Meinhold con il CLN non veniva riconosciuto dalle truppe comandate da
Berningaus e nemmeno dai combattenti della X' MAS.
Ciò detto, non va nemmeno
taciuto il fatto che tanto poco aveva inciso l'insurrezione partigiana
sulla reale situazione militare, che, nonostante l'annuncio via radio alle
ore 9 del giorno 26, della conquista partigiana di Genova alle ore 14 dello
stesso giorno, unità navali inglesi dovettero cannoneggiare le postazioni
tedesche e fasciste.
L'unico risultato concreto
delI’intervento “garibaldino” fu l'entrata in funzione dei tribunali del
popolo fin dal giorno 25. Ne furono insediati all'albergo dei Poveri, al
Bristol, all'albergo Crespi, a Sestri Ponente e a Pegli. Quanto auspicavano
i comunisti era stato raggiunto. A volere, per la verità storica,
questi democratici tribunali, non furono a Genova soltanto i comunisti.
Ascoltiamo, in proposito, Giancarlo Pajetta nella sua intervista pubblicata
da “Rinascita” il 28 maggio 1966. “Al Nord, nel CLN, c'era gente che si
dichiarava più estremista di noi. Taviani non andava tanto per il
sottile sulle misure da prendere contro i fascisti”.
E Taviani, poveretto, aveva
grandissimo bisogno di dimostrare il suo entusiasmo insurrezionale a fianco
dei comunisti. Come avrebbe potuto altrimenti farsi perdonare i suoi trascorsi
littori? Ricrearsi quella verginità antifascista di cui oggi va
orgoglioso? Far dimenticare il suo estremismo in camicia nera manifestato
a Trieste e a Bologna nel 1938? E quanto aveva scritto nel giugno '36 su
“Vita e Pensiero”: “L'Italia oggi in Africa Orientale ha il suo impero
perché attua i principi mussoliniani del vivere pericolosamente,
del credere, obbedire, combattere”? E' proprio Taviani che annuncia alla
Radio di Genova la mattina del 26 aprile la vittoria partigiana. Ma quanto
essa fosse superflua e poco meritata lo dimostrarono il 26 sera le avanguardie
della divisione americana Bufalo occupando Nervi.
E' a questo punto che effettivamente
ogni resistenza tedesca e fascista cessò e che tutte le unità
si arresero e si consegnarono agli alleati.
Questo accadeva agli uomini
in divisa nelle stesse. ore in cui la caccia al fascista inerme si fa spietata,
più o meno come cinque giorni prima era accaduto a Bologna.
I giustiziati di Genova in
quelle giornate, per concorde valutazione delle due parti, superarono i
2.000.
E fra essi molti furono gli
episodi di inaudita ferocia, quali ad esempio, le sevizie cui furono sottoposte,
prima di essere trucidate, Ester Oliviere e Alidina Parrini, il prof. Giuseppe
Eboli, i fascisti Brunetti e Tonganelli, e le vittime delle stragi di Torriglia
e Masone. Il podestà fascista di Genova, Silvio Parodi, esempio
di esemplare moderazione nei mesi della guerra civile, veniva gettato vivo
in una fornace; il fratello dell'ex segretario del Partito Nazionale Fascista
Vidussoni veniva assassinato solo perché tale.
Fra gli episodi più
atroci di quelle ore sono le torture inflitte a Mario Arzeno, il cui padre
Tito è poi obbligato dai partigiani a scaraventarlo, ancora vivo,
dall'arcata del porto di Cornigliano.
E' il partito comunista che
affida al CLN genovese il compito di raccogliere i cadaveri, i quali sono
tanti che è necessario impartire l'ordine di adibire le vetture
tramviarie alla loro traslazione.
Per rimuovere i cadaveri dei
fascisti prelevati nelle carceri di Marassi e poi fucilati, furono impiegati
carri dell'assistenza vaticana, giunti al seguito delle truppe alleate.
Il resto della Liguria in quei giorni cercò di non essere da meno
dei capoluogo. Centinaia furono i fascisti soppressi, così che ai
primi giorni di maggio - è lo storico antifascista Simiani che lo
dice - si erano raggiunte le 3.000 esecuzioni. -
Perché non ricordare
le infamie consumate contro le diciassettenni Ramella e Bosia, soppresse
a Imperia in quanto infermiere nei reparti militari della RSI?
Ad Alassio il cap. Corticelli
della Guardia Nazionale Repubblicana fu crocifisso su un tavolo di osteria;
ad Albenga, a Romeo Alamandola e a Cesare Lamposone, prima di essere fucilati,
furono tagliati naso e orecchie.
A quegli assassinii, a quelle
stragi in quei giorni terribili seguiranno poi gli assassinii legati dalle
sentenze delle Corti d'Assise straordinarie.
A Genova sembrava ormai che
il “vento del Nord” non dovesse cessare mai.
Altrettanto era successo a
Bologna, appena occupata dagli alleati, per mano dei boia di Stalin, Longo,
Togliatti, ecc.
A Milano, che si volle capitale
morale della insurrezione partigiana del Nord Italia, il 24 e 25 aprile
scorrono senza che vi sia traccia di alcun fatto, di alcuna azione insurrezionale.
Il Governo della RSI e il suo Capo continuarono in quei giorni ad esercitare
la loro funzione in assoluta libertà d'azione, tant'è che
Mussolini mantenne il proprio Quartier Generale nella Prefettura in corso
Monforte, sino al momento in cui decise di lasciare la città per
Corno. Ciò avvenne alle ore 20 del 25 aprile 1945. E' indubitato
che sino a quell'ora i fascisti erano liberi nei loro movimenti sia a Milano
che nella provincia. Qua e là si registra, il giorno 25 aprile,
qualche scaramuccia con i posti di blocco fascisti della periferia, e un
appena accennato tentativo di occupazione della Pirelli e di qualche industria
nella zona di Sesto San Giovanni vede un ritorno offensivo dei reparti
della RSI che riprendono l'immediato controllo della situazione.
La storiografia della resistenza
fissa nel pomeriggio del 25 aprile, con l'esplosione “dirompente” nella
notte tra il 25 e il 26 aprile l'inizio del moto insurrezionale in Milano.
Questo contraddice con la realtà storica, se si considera che, in
esecuzione degli ordini impartiti da Pavolini, oltre 5.000 fascisti, con
centinaia di automezzi, decine di mezzi corazzati e blindati poterono schierarsi,
nelle prime ore del mattino del 26 aprile sul centralissimo itinerario
che va da piazza Dante al Castello Sforzesco.
La lunga colonna, ordinata
e inquadrata, raggiunse Corno senza alcun intralcio, a meno che non si
voglia considerare tale qualche sporadica sparatoria, a distanza, all'altezza
delle ultime case della periferia.
A Milano a volere l'insurrezione
furono solo i comunisti, il resto del CLN era disposto ad accettare un
pacifico trapasso dei poteri.
Il CLN di Milano sapeva bene
che non c'era alcuna intenzione insurrezionale nelle masse popolari, se
si esclude l'apparato comunista di guerriglia e se vogliamo credere, come
noi crediamo, nelle parole del card. Schuster pubblicate nel libro Gli
ultimi giorni del regime: e contrari, minacciando una frattura nella compagine
del CLN, i comunisti».
Ed i comunisti, a Milano,
non erano in grado di promuovere alcunché di insurrezionale né
contro i fascisti né contro i tedeschi.
L'unico atto rilevante, che
si può tutt'al più definire una pura e semplice assunzione
di poteri, fu l'occupazione fra il 25 e il 26 aprile della Prefettura in
corso Monforte, dopo che se ne era andato l'ultimo fascista.
A compierla non furono né
i comunisti né altri, ma i 500 uomini della Guardia di Finanza comandati
e inquadrati dal Colonnello Malgeri, in esecuzione di un ordine del Gen.
Cadorna, rappresentante del Governo legalitario del sud presso il Comitato
di Liberazione Nazionale Alta Italia. E del Gen. Cadorna i comunisti non
erano per nulla soddisfatti, per la ragione che lo stesso, anche in ossequio
a precise disposizioni comunicategli dal Comando militare alleato, non
assecondava i propositi insurrezionali dei comunisti.
Sui rapporti tra Cadorna e
i comunisti, ad esempio, riferisce lo storico inglese Collier: !"».
A Milano anche il giorno 26 scorre in sporadici e limitatissimi scontri
tra i partigiani, che si moltiplicano e spuntano anche tra persone che
sino allora mai si erano interessate di resistenza, e piccoli gruppi di
fascisti rimasti in città ad attendere l'arrivo degli anglo-americani.
Ma abbiamo già chiarito che il partito comunista per insurrezione
intendeva ben altra cosa. Ad eseguire la quale occorrevano comunisti di
provata fede e di cieca obbedienza: costoro, infatti, si presentarono con
le brigate garibaldine di Moscatelli.
E' Pietro Secchia che ce ne
informa nel suo libro Aldo dice 26 x 1: “Soltanto alle ore 17 del 27 aprile,
la prima colonna di partigiani, seguita poi da altre, faceva il suo ingresso
a Milano”.
Mussolini e i fascisti l'avevano
lasciata da più di 36 ore.
E più avanti: .
Ma nemmeno le brigate rosse,
cui la storiografia resistenziale assegna tanti eroismi fecero molto, se
è ancora Secchia a scrivere: “Comandi tedeschi asserragliati in
edifici trasformati in fortezze, difesi da reticolati... non cessarono
di sparare, dicendo che si sarebbero arresi agli Alleati ... “.
E cosi fu.
Ma l'arrivo delle brigate
comuniste a Milano significò ben altro; ce lo riferisce lo storico
antifascista Simiani: “Ogni paese, ogni più piccolo borgo voleva
la sua brigata. Il nemico era sbaragliato, ma i volontari continuavano
ad affluire a centinaia di migliaia e gli ultimi arrivati, gli eroi della
sesta giornata si dimostrarono i più accaniti, i più violenti,
i più presuntuosi. Si giustiziava dovunque, senza discriminazione;
e intanto agli occhi degli esperti non sfuggiva l'incetta di armi da parte
di individui misteriosi che poi scomparivano. Questa incetta, dal momento
che le armi non dovevano servire più e dopo il chiaro ordine di
consegna delle medesime, a quale scopo mirava? Non c'era paese o località
dove non si desse la caccia più spietata al "republichino".
Anche se si trattava di un
povero diavolo che, o per timore o per bisogno, aveva semplicemente aderito
al crollato regime senza aver mai fatto nulla di male».
E per esemplificare il loro
stile, non si può dimenticare l'uccisione a freddo del cieco di
guerra Medaglia d'Oro Carlo Borsani.
Questi doveva essere colpito
dalla giustizia comunista, perché la sua predicazione d'amore contro
l'odio poteva rappresentare un punto di riferimento per le future generazioni.
Così, colpiti alle spalle, furono assassinati valorosi combattenti,
quale l'asso dell'Aviazione Repubblicana Maggiore Adriano Visconti, conte
di Modrone. Egli della guerra civile sapeva solo per sentito dire, si era
battuto fino all'ultimo nei cieli di Milano e delle città del nord
per difenderle dai bombardamenti terroristici alleati, ma anche lui doveva
essere eliminato secondo la logica comunista perché il suo esempio
di dedizione alla Patria poteva essere un punto di riferimento per i giovani.
A Milano la giustizia comunista
colpiva anche i partigiani che, avendo combattuto sul serio, non credevano
nella necessità dell'insurrezione; fra costoro ricordiamo Federico
Barbiano, giustiziato misteriosamente, insieme a cinque suoi compagni,
da un plotone di esecuzione delle brigate garibaldine nel carcere di San
Vittore il 28 aprile.
Vengono eliminati anche i
non fascisti, quegli uomini che avrebbero potuto in qualche modo contrastare
il comunismo. E' così che viene assassinato a Sesto San Giovanni
Ugo Gobbato, dirigente dell'Alfa Romeo, uomo venuto dalla “gavetta” e che
per di più poteva ascrivere a suo merito di aver salvato gli impianti
dalla distruzione e centinaia di operai dall'internamento in Germania.
Sempre a Sesto San Giovanni cadevano i dirigenti industriali Soliveri,
Grazioli, Scotoli e Mazzoli della Breda, tutti responsabili di anticomunismo.
Se vogliamo definire insurrezionali questi fatti, essi sicuramente lo furono
conforme al credo comunista. Ed è ancora Togliatti che lo precisa,
come si legge nel libro di Marcella e Maurizio Ferrara “Conversando con
Togliatti”: “La direttiva della insurrezione nazionale fu concretamente
data e spiegata a tutto il popolo dai comunisti”.
Con la stessa logica e nelle
stesse forme si giustiziava a Como, a Legnano, a Brescia, a Pavia, a Piacenza,
a Sondrio, dove interi reparti della RSI, regolarmente arresisi e perciò
prigionieri di guerra, furono proditoriamente massacrati dopo la consegna
delle armi. Come i comunisti volevano, l'odio e la vendetta si ispiravano
ad un preordinato disegno, anche se ad esso si tentava di applicare la
maschera dello sdegno popolare.
Cosi si comprende lo scempio
di piazzale Loreto che risultò lo scenario meglio curato dalla regia
comunista; infatti, doveva servire da monito a tutti coloro che nutrissero
idee e progetti antitetici, appunto, a quelli del partito comunista. Ecco
come ne riferisce ancora lo storico Kirkpatrik: “29 aprile. Un furgone
portò i cadaveri dei giustiziati in piazzale Loreto... furono appesi
per i piedi alle traverse di una stazione di servizio ed esposti al pubblico
ludibrio... erano trascorsi appena quattro mesi da quando Mussolini era
stato acclamato nelle strade di Milano.»
Nei giorni che seguirono,
gli Alleati finalmente assunsero il controllo della città e di tutta
la Lombardia, ma ciò nonostante la strage continuò.
Per alcuni mesi ancora la
stampa del Nord quotidianamente registrerà il ritrovamento di uno
o più corpi di “giustiziati” nelle strade e nei borghi. Fu adottata
la dizione “cadavere di fascista o presunto tale”.
Dovranno passare parecchi
anni prima che autorevoli rappresentati della resistenza abbiano il coraggio
di criticare quanto avvenne.
Torino e il Piemonte furono
il terzo degli epicentri del disegno insurrezionale del PCI.
Già tra il 18 e il
20 aprile Torino era stata teatro di un tentativo di sciopero pre-insurrezionale,
che, come è storicamente accertato, fallì e registrò
soltanto una parziale astensione dal lavoro, tant'è che il Comando
Fascista della Piazza e le Autorità provinciali della RSI mantennero
facilmente il controllo della città e i collegamenti con Milano
e le altre province del Nord, fino al 26 aprile.
La presenza di consistenti
forze tedesche a Torino e il dislocamento delle divisioni “Littorio” e
“Monterosa” e della Guardia Nazionale Repubblicana a protezione della frontiera
occidentale contro il pericolo della avanzata gollista verso il Piemonte,
aveva sconsigliato ogni velleità insurrezionale.
E di conseguenza anche i comunisti
nulla osarono in quella vigilia.
E' il 27 Aprile che anche
a Torino le autorità della RSI tentano una consegna pacifica dei
poteri al Comitato di Liberazione Nazionale.
Così riferisce Pietro
Secchia: “Verso mezzogiorno, il Comitato militare per la resistenza in
Piemonte riceve una prima proposta dei fascisti che intendevano trattare
per il trapasso dei poteri. Le proposte sono respinte; ai fascisti il CLN
risponde che non intende concordare alcun passaggio di poteri».
Dinanzi a questa presa di
posizione che rivelava un proposito insurrezionale ad ogni costo, le unità
della RSI si riunirono la sera in prefettura e il comandante della piazza
colonnello della GNR Cabras decise di ritirare dalla città tutte
le unità militari efficienti, costituendo nella notte tra il 27
e il 28 aprile una colonna autocarrata di oltre 20.000 uomini, protetta
da reparti corazzati e blindati della “Leonessa” di cui assunse personalmente
il comando.
La colonna lasciò Torino,
superò agevolmente ogni tentativo di blocco e si diresse verso la
Valtellina. Solo il 30 aprile, quando ormai gli eventi bellici si erano
risolti, Cabras si arrendeva alle avanguardie americane incontrate lungo
l'itinerario.
A Torino erano rimasti circa
2.000 volontari delle Brigate Nere, al comando dell'ispettore federale
Giuseppe Solaro, per svolgere una azione di copertura alla partenza della
colonna Cabras e il recupero di eventuali sbandati in ripiegamento dalle
valli viciniori.
E' su questi volontari, sulle
famiglie dei fascisti, sugli umili gregari, sugli anticomunisti, che si
scatenò la rabbia partigiana.
Ma anche a Torino gli ultimi
fascisti si comportarono molto diversamente da quello che il mito resistenziale
vuol far credere.
Racconta Del Boca nel libro
Ricordi di un partigiano semplice: “I fascisti aprirono il portone e vennero
fuori con due carri armati, credendo di farci paura. Ma i nostri addetti
ai bazooka li lasciarono avvicinare, poi una grande fiammata e tutto fu
distrutto. Visto che eravamo ben armati, alcuni fascisti cercarono scampo
vestendosi in borghese, altri si arresero, i più scalmanati resistettero
gridando "Viva il Duce" e gridando morirono».
E ancora si legge: "Da
per tutto si vedevano partigiani, i fascisti sembravano morti. Nelle vie
si incontravano spesso i loro corpi crivellati di colpi". E poi: "La
sparatoria continuò finché arrivarono dei rinforzi che salirono
nell'alloggio e riuscirono a farli prigionieri. Erano due giovani delle
Brigate Nere in divisa. Sul berretto avevano disegnato un teschio e con
aria spavalda gridavano 'Viva il Duce'. Li portammo al comando e li fucilammo".
E così dell'ultimo
episodio: “Il fascista alzò le mani gettando l'arma. Tranquillamente
ci seguì e senza una parola si diresse verso un monumento. Si aggiustò
la divisa e il berretto e aspettò la morte. Era da ammirare. Moriva
per il suo ideale”.
Le storie partigiane per oltre
40 anni hanno cercato di denigrare gli uomini di Solaro, definendoli “franchi
tiratori”. Strana gente questa che, in divisa combatteva, e con la divisa
moriva in postazione o fucilata!
Ma era necessario definirli
“franchi tiratori” per giustificare la “giustizia partigiana” immediatamente
entrata in azione.
Giustizia partigiana, che
sterminò i prigionieri, ignorando ogni legge civile e militare.
E che fosse strana quella giustizia traspare dagli atti ufficiali della
resistenza piemontese, come si legge nella “Storia del CLN regionale”,
edito da Feltrinelli.
“La giustizia dei patrioti
agiva rapidamente... anche se l'inevitabile esplodere dei risentimenti
e delle vendette colpiva talvolta con fatale crudeltà qualche vittima,
le cui colpe erano infime”.
In tal modo, fino al 5 maggio,
quando finalmente intervennero, armi alla mano, gli Alleati per porre termine
a tanta infamia, nelle vie e nei sobborghi di Torino caddero 4.000 fascisti
o “presunti tali”.
Per la loro somiglianza al
colonnello Cabras, tre innocenti furono assassinati.
Morirono in quei giorni per
vendette personali dirigenti e tecnici delle fabbriche invisi ai comunisti,
morirono tanti innocenti per le sentenze emesse dai Tribunali del Popolo,
dei quali il più attivo fu quello insediato nel carcere giudiziario
di Torino, donde, per festeggiare il I° maggio, vennero prelevati e
fucilati in Corso Vittorio Emanuele, angolo Corso Inghilterra, 17 fascisti.
Le donne a Torino e in Piemonte pagarono un alto prezzo la “colpa” di essere
madri, sorelle, spose, fidanzate di fascisti.
A decine i corpi delle Ausiliarie
seviziate e massacrate, vennero raccolti sul greto dei Po, tra il 1°
e il 5 maggio.
Nel cuneense, nel novarese,
a Saluzzo, caddero a centinaia gli appartenenti ai reparti della RSI, alpini,
paracadutisti, camicie nere, che, credendo nella buona fede degli avversari,
avevano sottoscritto formale atto di resa e consegnato le armi.
Dinanzi a tanto scempio, anche
la coscienza di alcuni partigiani si ribella. E' il caso del comandante
della 105a brigata Alberto Polidori il quale, al Rondò della Furca,
tenta inutilmente, a rischio della propria vita, di salvare 5 giovani Ausiliarie.
Il martirio di Giuseppe Solaro
trascinato appeso alla corda su un autocarro per le strade di Torino, che
guarda con volto sereno i carnefici, è un atto di fede e di amore
che onora in quella ora tristissima il Piemonte e l'Italia.
Ora, non sarebbe seria la
ricerca storica, se non si ricordasse, a parziale conforto di tante angosce,
l'esempio di civiltà che diedero le genti della Val d'Aosta. In
Val d'Aosta non un solo fascista fu giustiziato; anzi, i partigiani non
comunisti ebbero cura di garantire salva la vita ai soldati della RSI che
a loro si erano arresi. In questo modo gli autentici combattenti della
libertà, interpretarono il sentimento popolare di gratitudine verso
quei soldati che sulle montagne, ai confini della Francia, avevano difeso
il Piemonte dall'occupazione dei gollisti francesi, preceduti dai marocchini.
Chi avrebbe altrimenti salvato
quelle povere donne dalle turpi violenze impartite alle ciociare un anno
prima?
Quella primavera del '45 sembrava
non dovesse finire mai. A mano a mano che le città passavano sotto
il controllo alleato e poi italiano, si tentava di ricostituire una parvenza
di autorità per cercare di contrastare il disegno, ormai evidente,
della epurazione fisica ad oltranza voluta dal PCI.
Se qualcosa si riusciva a
fare nelle più importanti città, col disarmo imposto dalle
truppe anglo-americane, non altrettanto accadeva nelle province. Ancora
nella prima decade di giugno, la polizia partigiana, tutta inquadrata da
elementi di fiducia dei PCI, proseguì la sua azione insurrezionale.
E' di quei primi giorni la vicenda atroce delle corriere, dei mezzi di
trasporto di fortuna, che riportavano dalle province del Nord alle loro
residenze quanti erano stati sorpresi dagli eventi bellici.
Corriere e mezzi di fortuna,
che venivano intercettati dalla polizia partigiana al momento dell'attraversamento
del Po o poco oltre.
Una volta fermati e perquisiti,
i passeggeri, che credevano di essere sulla via della salvezza, finivano
nelle caserme partigiane, vere bolge dantesche. Basterebbe ricordare quanto
avvenne a Concordia, nel modenese, dove nel '71, l'indagine giudiziaria,
condotta dalla Procura della Repubblica di Bologna, che prosciolse per
amnistia i responsabili, accertò che il maggiore problema che avevano
dovuto risolvere gli “eroi della insurrezione partigiana”, fu quello di
coprire con gli altoparlanti ad altissimo volume le urla dei prigionieri
torturati prima di essere consegnati al plotone di esecuzione.
Lo scoprimento di fosse comuni
con i resti di centinaia di persone prima seviziate e poi soppresse continua
tuttora nei cosiddetti “triangoli della morte”. Dei quali, uno dei più
tragici, è quello circostante il ponte della Bastia, all'incrocio
delle province di Ravenna, Bologna e Ferrara, dove per anni i “compagni”
hanno ucciso e nascosto le loro vittime.
Gli orrori delle “radiose
giornate” (tali furono definite dal “Migliore”) in un secondo tempo, si
cercò di legalizzare con le sentenze delle Corti di Assise straordinarie.
Poco o nulla importava che
le testimonianze fossero, o no, attendibili e le accuse più o meno
fondate; fatto sta che il risultato era invariabilmente la condanna a morte.
Con le eccezioni a conferma della regola.
A conclusione di questa sintetica
analisi è bene ricordare che dove non si era riusciti con l'eliminazione
fisica si è cercato di ottenere con la più spudorata e asfissiante
mistificazione storica del fascismo, presentato agli ignari come un concentrato
di idiozia e di violenza, quasi che i più illustri antifascisti,
a babbo morto, non siano stati, nei cosiddetti “anni del consenso” i più
fieri apostoli del fascismo.
Ma la storia, grazie a Dio,
è fatale giustiziera e la verità, quando che sia, verrà
alla luce.
Fu quello delle “radiose giornate”
un odio senza speranza, proprio perché si esercitò sulla
pelle dei vinti, padri, figli, spose, fratelli che fossero.
La Spagna franchista, vent'anni
dopo la fine della guerra civile eresse e consacrò al culto degli
spagnoli, il monumento della “Valle dei Caduti”, dove fraternamente sono
raccolti, dimenticati gli anni del furore, i caduti dell'una e dell'altra
parte.
L'Italia della storiografia
resistenziale, ancora alla fine degli anni '90 ha scoperto fosse comuni
con i miseri resti dei vinti.
Questo disprezzo per i Morti,
tanta empietà nei comportamenti, emblematicamente consegna alla
storia uomini e classi dirigenti che la storia fatalmente condannerà,
o nel più benevolo dei casi, ignorerà. Ricordate, al riguardo,
la lettera inviata 38 anni fa da Alberto Giovannini alla tredicenne figlia
Marzia?
Ora vi proponiamo ciò
che Cesare Pavese, pubblicò nel 1949:
"Ho visto i nostri morti,
ma ho visto anche i morti sconosciuti, quelli del nemico, quelli "repubblichini"
sono questi che mi hanno svegliato qualcosa... Il nemico, anche vinto,
è qualcuno, e dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare
una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Ogni caduto somiglia
a chi resta e gliene chiede ragione. Al posto di un nemico nostro potremmo
essere noi e non ci sarebbe differenza. Per questo ogni guerra è
una guerra civile. E dico, se vogliamo ritornare a sperare e vivere, pietà,
pietà anche per il nemico ucciso".
I GIORNI DELL’ODIO AA..VV. Ciarrapico
Editore.(Indirizzo e telefono: vedi EDITORI)
D'ACCORDO PRESIDENTE, CHE GIUSTIZIA
SIA ANCHE AD OMEGNA
Gianni Cerutti
Tra le molte cose dette dal Presidente della Repubblica,
ovvero il superpartes presidente di tutti gli italiani, lungo i due giorni
trascorsi fra la gente della sua terra, di una, in particolare, tratteremo
in queste note, lasciando le restanti ad altri spazi di questo giornale.
Ad Omegna, nel citare la lettera della figlia di
un fucilato alle Fosse Ardeatine con lo zio, lettera con la quale la donna
- cinquant'anni fa una bambina - pur rivivendo il dolore di quei giorni,
invocava perdono (per il capitano delle SS. Priebke, che l'Italia vorrebbe
processare), Scalfaro ha detto di essere rimasto senza fiato, ma di avere
risposto a quella signora dicendole che pur ammirando la sua grandezza
d'animo rimaneva del parere che la giustizia dovesse fare la sua parte...
Dette ad Omegna, quelle parole sono suonate con
stridore orrendo per coloro che ancora ricordano i tanti massacrati dei
partigiani, uomini, donne e giovani, colpevoli, soltanto di essere rimasti
fedeli a un ideale, quando non totalmente estranei ad ogni ideologia, ma
odiati da miserabili invidiosi vestiti da «patrioti». Probabilmente,
di questi, Scalfaro non ricorda nulla o se ne è dimenticato per
non dispiacere ai suoi partigiani. Così, per analogia, ci permettiamo
ricordargli il massacro della famiglia Trimboli, una delle tante, di Omegna,
appunto, città in cui il Presidente di tutti ha ricordato con accenti
commossi la carezza alla figlia di quel padre destinato alle Fosse Ardeatine,
massacro di 335 estranei per ritorsione alla strage dei 33 tedeschi fatti
saltare da Rosario Bentivegna e Carla Capponi, premiati questi, a fine
guerra, con tanto di medaglia d'oro per non avere trovato il coraggio di
dichiararsi autori dell'attentato per il quale tutte le mura di Roma sapevano
che per ogni tedesco ucciso avrebbero pagato dieci italiani (legge, tremenda
legge di guerra!).
Ebbene, Presidente che sostiene saggiamente l'inesorabilità
della giustizia, questa benedetta giustizia da lei invocata, faccia il
suo corso anche ad Omegna, dove, nella notte fra il 25 e il 26 gennaio
del 1945, una squadraccia di partigiani penetrò con l'inganno nella
bella casa di Via Novara 136. Prelevò Raffaele Trimboli, la moglie
Clorinda Benassai e la figlia Gianna di 21 anni, caricando sulle proprie
e sulle spalle dei «prelevati» tutto ciò che avevano
potuto razziare di prezioso. Sacchi di bottino.
Ebbene, Presidente, lei che si è commosso
al ricordo di quella carezza data alla figlioletta dal padre martire a
Roma, non dovrebbe rimanere insensibile all'ultimo abbraccio dato a Francesca,
14 anni, ad Antonietta, 13, a Romolo Trimboli, 9 anni, da papà Raffaele,
da mamma Clorinda e dalla sorella Gianna, prima di essere strappati ai
loro figlioletti in quella notte di terrore di cinquant'anni fa.
Lei, Presidente di tutti gli italiani, dovrebbe
anche per quei piccoli orfani, ora cresciuti nel dolore e nell'emarginazione,
invocare il regolare corso della giustizia e non rimanere senza fiato.
In quella notte, mentre i tre piccoli annaspavano
nella disperazione e nella paura, papà, mamma e Gianna Trimboli
venivano torturati, violentati e annegati, si dice ancora vivi, dentro
un telo di paracadute, in fondo al lago in località Punta di Crabbia.
Sul posto, qualche giorno dopo, i tre orfanelli trovavano indumenti intimi
della mamma e della sorella. La loro colpa? Di avere avuto simpatie «fasciste»
tanto da avere dato alla Guardia Nazionale un figlio, Renzo, morto qualche
mese prima in un incidente stradale sull'autostrada presso Torino.
Di che colore erano quei partigiani, signor Presidente?
Le basti un particolare: in quella notte di violenze inaudite e di crimini
che gridano vendetta al cospetto di Dio, frase biblica -Presidente-, fu
rapinata anche una radio «Guglielmo Marconi», che le sorelline
scampate (si fa per dire) alla tragedia di quella notte di gennaio di cinquant'anni
fa, recuperarono poi, a guerra finita, coraggiosissimamente, a fatica e
non senza rischio nella sede del partito comunista omegnese, assieme con
la minaccia che se avessero rivelato a qualcuno il particolare, avrebbero
fatto la stessa fine dei genitori. Signor Presidente, commosso e senza
fiato d'accordo, ma che la giustizia faccia il suo corso. Poi, sempre per
amore di giustizia, nessuno le chiederà di tornare a Omegna. Nessun
sventolio di bandiere, nessun raduno, niente abbracci, niente fiori.
Dopo che la giustizia avrà fatto il suo corso,
sono certo che quando le capiterà di passare lungo il Lago d'Orta
- cimitero senza lapidi di tanti altri martiri - ricorderà la celebrazione
dei suoi partigiani e forse le sovverrà il richiamo alla giustizia.
Forse non avrà il tempo per sostare nei pressi della «Punta
di Crabbia», ma per una preghiera, sì, lo voglio sperare.
Almeno in sostituzione di un cenno di conforto a coloro che in silenzio
e nell'emarginazione tutte le notti hanno rivissuto il buio di quella notte.
Per cinquant'anni. Con la sola colpa di essere orfani di tre martiri.
Il Nord 19 Settembre 1995